Ho lasciato il porto sicuro da molto tempo, senza vele, senza timone e bussola.
Un mare oscuro: il mio, buio e profondo popolato di ombre e ricordi confusi.
Non sono lucido, la mia meta è oscura, inesistente, soffocante; ho perso di vista il faro che mi guidava ipnotizzato, non ho punti fermi, niente finte certezze, solo amarezza per cose non viste, non fatte, non vissute, nostalgia di un giovane cresciuto mai completamente.
Vuoto e pieno alternato come il respiro, come fossi galleggiante astronauta perso nello spazio oltre il mondo, tutto è freddo e distante ovunque io guardi, tutto è vivo e morto allo stesso modo, nello stesso istante.
Eppure c'è vita intorno a me, così la chiamate voi umani, grida, parole, rumore, e ogni genere di suono invade il mio essere, anche se distante e ovattata mi arriva la vostra vita, ne percepisco il moto pur non capendone più il senso.
Qual'è la normalità che mi dite che ritroverò? Definitemi normalità, convincendomi e io vi seguirò come un cane segue il padrone.
Nessuno ancora è riuscito a trovarmi nel mio mare, c'è chi ci prova tutti i giorni, ma sento lontana la sua voce, come fosse un eco portato dal vento.
Non credo troverò altri approdi; mi piace starmene lontano dalle vostre rive, cullandomi della mia giovane pazzia.
Così rimango a cullarmi nella mia attesa, dentro al mio guscio, come un feto nel limbo del suo liquido amniotico; finché un'onda anomala non mi partorirà, spiaggiandomi di nuovo su questa terra, spalancandomi al freddo e alla chiarezza delle cose, di nuovo tra voi ma consapevole della fragilità della vita.